Dal basso dei trenta gradi e poco più che qui abbiamo chiamato
"ondata di caldo", provo un po’ di imbarazzo a commentare con distacco
quel che è avvenuto nei giorni scorsi in Sicilia. Non desidero in alcun
modo tentare di analizzare una situazione che conosco solo attraverso
le cronache, ma è una buona occasione per sottolineare qualche aspetto poco evidente.
Di tutti i disagi e le debolezze del sistema evidenziate
dall’emergenza, mi ha colpito in particolare un fatto a prima vista
secondario: alcuni stabilimenti produttivi sono stati costretti a
interrompere l’attività e, facendo ricorso allo stato di calamità
naturale, è stato possibile tutelare gli interessi di tutti limitando i
danni e mettendo i lavoratori in cassa integrazione per il tempo della
chiusura. Era forse l’unico strumento che consentisse di tutelare
imprese e lavoratori, quindi probabilmente è giusto così. Eppure stona,
al di là dell’indiscutibile difficoltà della situazione, l’uso
dell’espressione "calamità naturale". Porta con sé l’accezione di
qualcosa che è occasionale, estemporaneo, imprevedibile, mentre invece
dobbiamo rassegnarci al fatto che questi episodi si presenteranno
sempre più spesso.
Ovviamente il problema non è nel glossario e nel repertorio di frasi
fatte. Ma anche queste rivelano quale sia il nostro approccio, che deve
per forza cambiare. Gli strumenti per affrontare questi eventi non
possono più essere quelli dell’emergenza: i blackout programmati
permettono al sistema di sopravvivere, ma sono misure che non possono
essere protratte per giorni. O settimane.
E’ fin troppo ovvio sottolineare come sia invece necessario agire
sulle infrastrutture, sulla loro efficienza e sulle regole
nell’utilizzo delle risorse.E, tornando ai danni subiti dalle imprese, sulla disponibilità di strumenti finanziari adeguati.
Pochi giorni fa il Financial Times ha ripreso il tema dei cosiddetti weather derivatives,
degli strumenti finanziari legati alle condizioni meteorologiche. Si
tratta in sostanza di una forma di assicurazione che prevede un
risarcimento a fronte del verificarsi di condizioni avverse, tali da
pregiudicare il successo di un’attività commerciale. Non ci sono solo i
rischi siccità, gelate e grandine per gli agricoltori: pioggia e neve
possono bloccare i cantieri edili, pregiudicare il successo di un
evento o ridurre le presenze nei parchi di divertimento o nei campi da
golf. O, per tornare al caldo eccessivo, possono aumentare i costi di
conservazione degli alimenti nei magazzini, ma anche della
climatizzazione dei datacenter.
Se per il rischio grandine il mercato assicurativo ha una storia antica, sul mercato dei weather derivatives
il capostipite è considerato nientemeno che la famigerata Enron, che
nel 1997 aveva siglato con Koch Energy Trading un contratto secondo il
quale, per ogni grado al di sotto di una certa temperatura, Enron
avrebbe pagato 10.000$ a Koch. E viceversa, per ogni grado al di sopra
di detta soglia.
Diversi fattori ostacolano il diffondersi di questo genere di
offerta, primo fra tutti le piccole dimensioni dei contratti in gioco.
Ma ci sono anche dei fattori positivi: per dirne una, è (almeno credo)
impossibile da manipolare e falsificare…